Dequalificazione non è prova di mobbing se non si dimostra l’intento persecutorio.

Dequalificazione non è prova di mobbing se non si dimostra l’intento persecutorio.

Mobbing, una parola che non tutti conoscono, che racchiude situazioni dalle diverse sfumature ma che presentano risvolti psicologici per le vittime davvero simili. Insulti, umiliazioni e demansionamento sono solo alcuni degli aspetti del mobbing che spesso degenera in vere e proprie molestie aggressioni fisiche, oltre che verbali. Tutte azioni rivolte ad un lavoratore da parte di colleghi, molto spesso di grado superiore, in quanto in una posizione che permette loro di esercitare tali pressioni sulla vittima fino a portarla all’allontanamento dal lavoro.

Un problema, quello del mobbing, ancora poco trattato, ma che colpisce sempre più persone che si ritrovano “incastrate” in ricatti morali del tipo “in questo periodo di crisi non puoi permetterti di lasciare il lavoro, anche se subisci angherie”.

C’è chi, però, a questi soprusi sul lavoro si è ribellato, provando il danno subito e chiedendo un trattamento più giusto, oltre che un adeguato risarcimento. È il caso di Francesco, un impiegato 40enne di un’azienda tessile che si è visto trasferire dall’ufficio marketing al call center dell’azienda, dopo aver subito aggressioni verbali, minacce e, in alcune circostanze, aggressioni fisiche da parte del suo superiore.

“Ho sempre fatto il mio lavoro con passione e dedizione. Ho sempre pensato che la collaborazione sia la chiave per il successo di un’azienda. Non avrei mai immaginato di potermi trovare in una situazione del genere”. Invidia per il successo altrui, è questa l’unica spiegazione che Francesco si dà. L’unica causa che può aver portato il suo superiore a volerlo vedere cadere sempre più in basso, umiliato e demansionato. Dopo il grande successo di una campagna pubblicitaria progettata dallo stesso Francesco, infatti, il suo capo ha iniziato ad affidargli compiti sempre più banali e di scarsa rilevanza rispetto alla sua professionalità e qualifica. Ma Francesco, se all’inizio è riuscito a celare il suo malcontento, all’ennesima richiesta fuori luogo ha risposto apertamente rifiutandosi di portare a termine il compito affidatogli perché al di fuori delle sue mansioni.

Dopo il rifiuto è iniziata una serie di accese discussioni, nelle quali oltre ad essere insultato, sarebbe anche stato strattonato dal capo, che avrebbe poi adottato questo atteggiamento ad oltranza. Grazie all’utilizzo di mini registratori digitali Endoacustica, Francesco è riuscito a registrare tutto ciò che stava accadendo e a denunciare i soprusi subiti, dimostrando come anche la dequalificazione rientrasse nell’intento persecutorio posto in essere dal suo capo. Cosa non irrilevante, se si considera che la Sentenza della Corte di Cassazione n. 12770 del 23/7/2012 ha stabilito che, per costituire prova di mobbing, il demansionamento va dimostrato come atto compiuto con evidente intento persecutorio. Un semplice trasferimento da una posizione più elevata ad una più bassa, quindi, non costituirebbe prova di mobbing di per sé.  Una sentenza già in pasto alle polemiche.

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